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Lavoro e Coronavirus: Quando è legittimo il licenziamento?

Paolo Mascitelli • 16 aprile 2020

Gli effetti del Decreto "Cura Italia" sui lavoratori

Nonostante  l’immediata risposta delle aziende nell’implementazione delle misure emergenziali anti-contagio da Covid-19, prima tra tutte la modalità di “lavoro agile” per i lavoratori, è evidente che il maggior rischio che si presenta nel mondo del lavoro sono le ricadute occupazionali, tanto che le stime da parte di vari centri studi autorevoli parlano di circa un milione e mezzo di posti di lavoro a rischio per la chiusura o quantomeno la contrazione delle attività commerciali, industriali e professionali.

L’intervento del governo a tutela dell'occupazione si è incentrato, in fase iniziale, nell'attivazione degli strumenti della cassa integrazione e nel blocco dei licenziamenti.
Il Governo, all’art 46 del decreto Cura Italia, ha stabilito il blocco dei licenziamenti dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020, sia in termini di riduzione collettiva del personale sia per quanto riguarda il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art 3 della legge n. 604/1996, indipendentemente dal numero dei dipendenti.

Vediamo di seguito quali sono le due ipotesi di licenziamento non ammesse ex art 46.

Cosa si intende per “licenziamento collettivo”?
Il licenziamento collettivo, introdotto con L. 223/1991, è il fenomeno per il quale un’impresa opera una riduzione significativa del personale in un contesto di crisi, a seguito di una ristrutturazione produttiva oppure in vista di una possibile chiusura definitiva dell’azienda.
Differentemente da un licenziamento individuale la riduzione del personale che interessa più persone richiede dei requisiti più specifici e stringenti in ragione dell’impatto sociale che è in grado di generare. In ragione di questo è prevista una procedura specifica che si coordina con una trattativa sindacale in grado di commisurare tutti gli interessi in gioco.
La disciplina generale prevede che il licenziamento collettivo trovi applicazione soltanto per le aziende che superano i limiti dimensionali dettati dall'art.18 dello Statuto,  nelle quali il datore voglia procedere con una riduzione di almeno 5 dipendenti in un arco temporale di 120 giorni all'interno della stessa provincia. Le piccole aziende che hanno al massimo 15 dipendenti non sono obbligate ad aderire a questa procedura e quindi, i licenziamenti sono semplicemente regolati dalla normativa dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. 
Il requisito dimensionale dell’azienda va calcolato considerando la media dei dipendenti occupati nell’azienda negli ultimi sei mesi, includendo anche apprendisti e assunti con contratto di inserimento.
La riduzione del personale con i licenziamenti collettivi è regolata direttamente dalla Legge n. 223 del 23 luglio 1991, integrata dalla Legge Fornero e infine, con il Job Act che ha operato su essa sostanziali modifiche.
Dopo aver comunicato alle rappresentanze sindacali la volontà di procedere con un licenziamento collettivo, datore di lavoro e sindacati danno luogo a uno o più incontri, per discutere sui criteri di scelta delle persone da mandare via. I criteri di scelta, in accordo sindacale, sono spesso i seguenti:
  • carichi di famiglia
  • età
Gli esiti della consultazione ed anche i poteri di impugnazione da parte del dipendente licenziato saranno diversi a seconda che la procedura si concluda o meno con un accordo con le rappresentanze sindacali.

In caso di accordo, al lavoratore licenziato spetterà sempre il potere di impugnazione entro 270 giorni. Egli potrà in primo luogo contestare i criteri di scelta ed il giudice potrà dichiarare illegittimo il licenziamento. Se per il dipendente valeva il contratto a tutele crescenti, avrà diritto solo a un risarcimento danni, mentre in caso di assunzione antecedente al marzo 2015 egli godrà della "tutela piena" ed avrà diritto anche alla reintegra del posto di lavoro.
In caso di mancato accordo sindacale, il sindacato giurisdizionale vaglierà anche la sussistenza dei requisiti per l'obbligatorietà della procedura, il rispetto della stessa e la corretta applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati.

Cosa si intende per “giustificato motivo”?
Ai sensi dell’art 3 della legge n°604/1066, il licenziamento per giustificato motivo "oggettivo"  si configura a causa di una esplicita necessità dell’impresa di interrompere il rapporto di lavoro per ragioni inerenti all’attività, alla produzione o all’organizzazione interna dell’impresa stessa.
Sono tre i presupposti che rendono legittima tale modalità di risoluzione del rapporto di lavoro:
  •  l’effettività e la sussistenza delle esigenze aziendali richiamate nella motivazione della lettera di licenziamento;
  • il nesso eziologico tra le suddette esigenze aziendali e la soppressione della posizione lavorativa individuata; 
  • l'oggettiva impossibilità di ricollocare proficuamente il dipendente all’interno dell’azienda, anche assegnando mansioni diverse ed al limite di livello contrattuale inferiore.
Il giudice investito dell'impugnazione del licenziamento potrà verificare la coerenza del recesso rispetto alla modifica organizzativa attuata, alla stregua delle comuni regole tecniche di buona organizzazione ma relativamente al c.d. repechage, spetterà al lavoratore allegare o quantomeno indicare l'esistenza di specifici posti di lavoro nei quali egli avrebbe potuto essere ricollocato.

Il blocco dei licenziamenti a causa dell'emergenza.
Ecco il testo preciso della norma in commento: articolo 46 dl 18/2020:
"A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (sono i licenziamenti collettivi, ndr) è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (è il licenziamento individuale per motivi economici).Ne deduciamo che il datore di lavoro non potrà recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo per i prossimi 60 giorni, sospendendo inoltre le procedure pendenti avviate  successivamente alla data del 23 febbraio 2020."

Il diritto del lavoro nel nostro ordinamento ammette ulteriori ipotesi di licenziamento che non risultano essere escluse all’interno del decreto “Cura Italia”.
La norma esclude dunque le seguenti modalità di licenziamento:
  • Licenziamento per giusta causa o g.m.s: per trasgressione o inadempienza del lavoratore dipendente
  • Licenziamento per fruizione del pensionamento per la “quota 100”
  • Licenziamento per il raggiungimento del limite massimo di età per poter accedere alla pensione di vecchiaia
  • Licenziamento per inidoneità del lavoratore alle mansioni affidate
  • Licenziamento per risoluzione del contratto di apprendistato

Le agevolazioni per integrazione del salario ai dipendenti.
Nell’ottica di fornire la maggiore esistenza possibile alle imprese, il decreto Cura Italia ha previsto ulteriori sostegni per il mondo del lavoro, estendendo a tutto il territorio nazionale la possibilità di attivare le forme di integrazione salariale per il personale dipendente (CIGO-Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria, CIGS-Cassa Integrazione Straordinaria, FIS-Fondo d'Integrazione Salariale).
Grazie a tali misure, la richiesta è ammessa da parte di tutti i settori del privato, compreso quello agricolo e della pesca e può essere effettuata da tutte quelle aziende che hanno sospeso in tutto o in parte la loro attività, per una durata massima di nove settimane con il fine di coprire circa il medesimo periodo previsto per il blocco dei licenziamenti collettivi e individuali.
La possibilità di ricorrere a tale misura è consentita anche ai datori con un solo dipendente.


Autore: Avv. Veronica Luperini 2 novembre 2023
Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.
Autore: Paolo Mascitelli 30 ottobre 2023
La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023 
Autore: Paolo Mascitelli 14 marzo 2023
La Cassazione torna a chiarire il "fenomeno" della colpa d'organizzazione rilevante ai sensi della punibilità dell'ente ex D.Lgs 231
Autore: PAOLO MASCITELLI 21 dicembre 2022
C orte di Cassazione , Sezione 4 , Penale , Sentenza 21 settembre 2022  n. 34943
Autore: Paolo Mascitelli 17 novembre 2022
Alla ricerca di una soluzione al problema di conformità.
Autore: Paolo Mascitelli 12 maggio 2022
Secondo la Cassazione n. 14760/22 è l egittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che per vincere i premi "cd fedeltà" carica i punti sulla propria carta, quando i clienti abbiano dimenticato o non abbiano proprio la tessera. Il caso A fronte del licenziamento disciplinare subito per i fatti in premessa, la dipendente assumeva a propria difesa la propria estraneità, deducendo che negli orari e nei giorni in cui risultavano eseguiti i fatti, ella si era alzata dalla propria postazione. I giudici di merito respingevano l'impugnazione, facendo gravare sulla dipendente l'onere della prova esimente, ritenendo già comprovata in via documentale la prova della giusta causa, in quanto tale fatto di per sé mina alla radice il rapporto fiduciario anche in ottica futura. Approdati dinanzi al giudice di legittimità, la Cassazione ha concluso per la legittimità della sanzione in funzione anche degli obblighi aziendali discendenti dal particolare rapporto di lavoro esistente tra le parti.T 
Autore: Paolo Mascitelli 22 febbraio 2022
Qualsiasi forma idonea a manifestare, chiaramente ed inequivocabilmente, la volontà di avvalersi dell'attività e dell'opera del professionista integra il presupposto necessario per dimostrare la debenza del compenso.
Autore: Paolo Mascitelli 3 marzo 2021
La Cassazione con ordinanza 5077/2021 rigetta il ricorso della ex moglie ed esclude il diritto all'assegno di divorzio, ribadendo le motivazioni già affermate dai giudici di secondo grado. Le indagini difensive del marito erano infatti in grado di fornire prova del fatto che la donna, nonostante le dimissioni formali al proprio datore di lavoro, continuava a prestare di fatto servizio nello studio professionale. Inoltre i problemi di salujte accusati dalla donna quali impedimenti per costituire forza lavoro autonoma e garantirsi un impiego, non si dimostrano fondati in quanto risulta essere nelle piene capacità lavorative.
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