Abbandono del tetto coniugale: quando scatta l’addebito per la separazione
Paolo Mascitelli • 3 luglio 2020
Ultime delle Cassazione: il coniuge che volontariamente abbandona il tetto coniugale, senza evidenti motivi, è soggetto all’addebito per la separazione.
Il caso
la controversia vede coinvolti due coniugi a seguito dell’abbandono del tetto coniugale da parte della moglie, giunta come estrema ratio a tale decisione a seguito di una convivenza intollerabile.
Il giudice di primo grado non aveva riconosciuto la sussistenza di alcun addebito nei confronti della stessa per tale abbandono ed anzi le aveva accordato un assegno di mantenimento nella misura di 1500 euro, ovviamente a seguito delle valutate e comprovate necessità di mantenimento.
La corte d’appello ribadiva la non sussistenza delle ragioni per l'addebito da abbandono, rilevando invece che le ragioni della separazione dovessero in realtà rinvenirsi nel fatto che tra i coniugi non fosse mai intervenuta una costruzione di un rapporto personale fondato sull’affetto, sulla progettualità e la condivisone, di guisa che il fallimento del matrimonio non potesse essere attribuito meramente alla moglie e ricondotto in maniera esclusiva all’atto di abbandono del "tetto coniugale".
La Corte dunque, tenendo conto delle condizioni familiari del marito e della necessità di mantenere un tenore di vita per la coniuge analogo a quello in costanza di matrimonio comunque interveniva sull'aspetto economico riducendo l’assegno di mantenimento e portandolo alla minor somma di 800 euro.
Entrambi i coniugi, reciprocamente soccombenti, impugnavano la sentenza ricorrendo in Cassazione.
Che cosa si intende per “tetto coniugale”?
Con l’espressione “abbandono del tetto coniugale” si intende l’allontanamento di un coniuge con o senza figli dalla casa familiare, da intendersi sia come il luogo di domicilio/residenza della famiglia ma anche come ogni altro luogo dove si concentra abitualmente la vita della coppia. E’ altresì considerato “abbandono” se a lasciare la casa è il coniuge non proprietario dell’immobile.
L’abbandono del tetto coniugale pone pertanto fine alla coabitazione matrimoniale, uno degli obblighi previsti dal legislatore e che nasce dal vicolo matrimoniale, per cui il comportamento del coniuge che si allontana dal tetto coniugale senza evidente motivo potrebbe far sorgere una pronuncia di addebito della separazione ergo attribuire la responsabilità della separazione a carico del coniuge che si è volontariamente allontanato.
Quali reati si configurano?
Le conseguenze dell’abbandono del tetto coniugale, possono essere sia civili che penali.
In relazione al profilo civile, il coniuge che abbandona il tetto coniugale senza una “giusta causa” viola i doveri coniugali stabiliti dall’articolo 143 del codice civile, quali l'obbligo reciproco alla fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione familiare e coabitazione.
A seguito dell’inadempimento di tali obblighi matrimoniali il coniuge si espone al rischio di vedersi addebitare la separazione, con le relative conseguenze, prima tra tutte, qualora ad abbandonare la casa sia il coniuge economicamente più debole, la perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori.
Per quanto concerne il profilo penale, l’abbandono del tetto coniugale configura il reato di cui all’articolo 570 del codice penale intitolato “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, secondo cui: “chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da Euro 103,00 a Euro 1.032,00″.
A chiarire la posizione legislativa di cui all’art 570 c.p., la Corte di Cassazione con sentenza n. 12310/2012 ha specificato che affinchè si possa configurare il reato è necessario che l’allontanamento “risulti ingiustificato e connotato da un disvalore etico e sociale”.
Quando l’allontanamento è considerato legittimo?
L’ordinamento riconosce chiaramente alcune situazioni che legittimano l'allontanamento di uno dei coniugi, quali ad esempio le situazioni in cui sussista violenza che metta in pericolo l’incolumità fisica e psichica del coniuge, l’infedeltà, l’invadenza dei parenti, la mancanza di intesa sessuale, il comportamento autoritario del coniuge.
Il coniuge che abbandona il tetto coniugale deve essere quindi in grado di poter dimostrare la sussistenza di una delle cause sopra citate come diretta conseguenza di una intollerabilità che rende improseguibile la convivenza e in grado quindi di giustificare l’allontanamento volontario.
La decisione della corte
Relativamente al caso qui commentato la Corte, con sentenza n. 12241/2020, rigettava entrambe le impugnazioni, stabilendo che l’abbandono del tetto coniugale possa assurgere a valido motivo per l’addebito della separazione salvo che il coniuge che si è volutamente allontanato non sia in grado di dimostrare che tale decisione sia stata compiuta per la necessità personale di risolvere una problematica insista nel rapporto e/o che lo stesso vincolo matrimoniale versasse in una grave crisi da tempi precedenti senza possibilità alcuna di recupero.
La Cassazione precisa anche che l’addebito della separazione per colpa sussiste anche se non viene provata l’esistenza di una relazione extraconiugale del coniuge che ha abbondato la casa familiare.
Nel caso specifico, la moglie che aveva volontariamente abbandonato il tetto coniugale, dimostrava a sua discolpa che l’allontanamento era stato necessitato come estrema ratio a fronte di una convivenza che non aveva più possibilità di prosecuzione a causa del comportamento di entrambi i coniugi che si erano rivelati inidonei a costruire un progetto di vita matrimoniale.

Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.

La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023
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